Entrando da San Carlo 17, la prima cosa che spicca all’occhio sono l’attenzione e la cura mostrati per i dettagli: tavoli di ceramica vietrese dipinti a mano, pomodori e oggettistica varia appesi alle pareti, sedie in stile antico. “Questa pala, ten’ cchiù ‘e ducient’ anni”, mi dice Luigi, il titolare, indicando una pala da forno poggiata vicino al muro. A vederlo così, mi sembra tutto troppo caricaturale, ostentato. E si vede che Luigi è uno che ci sa davvero fare, non solo con i clienti, ma con la gente in generale. E allora, mi sorge spontaneo chiedermi il perché, di tutto questo. Il locale si trova in una posizione strategica, esattamente al centro tra piazza del Plebiscito e il Maschio Angioino. Chiunque altro, probabilmente, si sarebbe limitato a piazzare quattro tavolini di plastica, una scritta “cucina tradizionale” per attirare i turisti, e con un investimento di pochi soldi ed energie avrebbe potuto ugualmente ottenere un risultato. Del resto, ci troviamo proprio di fronte al San Carlo, il via vai di gente è continuo a tutte le ore. Ma a Luigi tutto questo non interessa: per lui, se si deve fare una cosa, la si deve fare bene, o tanto vale non farla proprio. E le idee, a quanto pare, le aveva ben chiare fin dall’inizio.
“Ci ispiriamo alla vera tradizione della cucina, napoletana ovviamente, ma non disdegniamo l’innovazione: ad esempio, da noi potrai trovare la classica genovese (che poi, mi dice, ogni turista quando se la vede arrivare rimane sempre stupito, perché si aspettava un piatto a base di pesto!), ma anche la carbonara di mare, in cui al posto del guanciale noi adoperiamo i gamberi. Ciò che più conta, però, sono le nostre usanze. Ad esempio, il coperto e il servizio, da noi non si pagano, perchè non hanno nulla a che fare con la buona tavola”. Gli chiedo cosa intenda esattamente, e mi spiega che si tratta semplicemente di una questione di apparenza: “quando entravi in una taverna, anni e anni addietro, il cibo ti veniva servito come capitava: una ciotola, posate utilizzate e riutilizzate, e così via. Ovviamente, nel momento in cui queste sono state sostituite da servizi di piatti, tovaglioli e quant’altro, i gestori hanno trovato subito il pretesto per assicurarsi un ulteriore da guadagno. Da noi non è così, perché per me l’unica cosa che devi pagare è la qualità di ciò che mangi, non c’è nessun costo aggiuntivo: proprio com’era un tempo”.
La qualità, appunto: confesso che dopo questa chiacchierata gran parte dei dubbi che avevo, dati da quella che ritenevo essere una “troppa ostentazione della napoletanità”, erano già caduti, grazie alla preparazione dimostrata da Luigi. Ma quando mi viene servita la pizza, crollano anche le mie ultime difese: buonissima. C’è davvero poco da dire, a riguardo: pomodorini gialli e rossi, accompagnati da mozzarella di bufala, e olio e basilico a crudo. Durata nel mio piatto: meno di tre minuti. Ogni boccone incoraggiava quello successivo, e dopo aver ripulito il piatto con tanto di scarpetta fatta col cornicione ed essermi leccato i baffi, quasi mi scendevano le lacrime al pensiero di averla finita.
Quando mi saluta, Luigi si raccomanda: la prossima volta, dovrò assaggiare gli gnocchi San Carlo, “sono gnocchi con lupini di mare e peperoncini di fiume”, puntualizza, “e li ho ideati stesso io”. Al solo pensiero, mi torna nuovamente l’acquolina in bocca.
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